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Alabama, Nuova Zelanda, Paura di volare

Gli albori dell’aviazione: due musei e un libro. Omaka Aviation Heritage Center e Tuskegee Airmen

 

La paura di volare è come l’ombra di Peter Pan che mi segue in ogni viaggio: i giorni prima di partire sono insofferente, in volo sono tesa come una corda di violino.

Ma è l’unica paura che mi affascina e che cerco di conoscere: la vedo sempre come essere sul bordo di un precipizio se soffri di vertigini. Tipo la paura di striscianti e insetti vari la tengo ben lontana.

Quindi leggo, e sono totalmente affascinata dalla storia dell’aviazione (aggiungiamo questo all’elenco delle mie nerdate), e quindi ho sempre voluto parlare di un posto meraviglioso in Nuova Zelanda, a cui adesso posso mettere accanto un altro scoperto in questo ultimo viaggio.

Il posto in questione di chiama Omaka Aviation Heritage Center, si trova a Blenheim nel Marlborough, in Nuova Zelanda (lo so che è giù di mano eh!).

Allora, prima di tutto c’è da dire una cosa: questo museo è la collezione privata ed è stato allestito da Sir Peter Jackson. Sì, proprio quello che ha creato la versione cinematografica del Signore degli Anelli (il link vi porta al post con tutte le location!), King Kong e fantasticherie varie.

Qui potrei già fermarmi nella descrizione, perché possono aprirsi scenari incredibili nelle vostre menti, e sarebbe assolutamente azzeccato.

Questa collezione di aerei della prima guerra mondiale, raccolti in un gigantesco hangar, tolgono in fiato: da quello del Barone Rosso a quello di Gianni Caproni, con tanto di ambientazione e scenografia.

Ma la parte più affascinante di questo museo è l’incredibile quantità di storie e memorabilia raccolte: ogni divisa, o paio di stivali hanno allegato la storia che l’ha accompagnato, e così scopri persone dimenticate nelle pieghe della storia e personaggi affascinanti, dimenticati nell’ombra di chi è rimasto famoso.

Il museo è gigantesco (per vederlo tutto servono minimo 2 ore, 18 se leggete ogni didascalia) e si divide (attualmente, quando siamo andati noi c’era solo la prima parte) in WW1 Exhibition ‘Knights of the Sky’ e WW2 Exhibition ‘Dangerous Skies’, quindi aerei della prima e della seconda guerra mondiale.

Il costo non è basso, dai $20.00 ai $39.00. Si parla di dollari neozelandesi quindi 39 sono circa 25 €. Li merita tutti, giurin giurello.18320736_10156152818248327_323185427733300924_o

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Un altro posto davvero interessante scoperto nell’ultimo tour negli USA è il Tuskegee Airmen National Historic Site (si legge tus-chi-gi), dedicato a un reparto nato per addestrare i piloti di caccia degli Stati Uniti d’America riservato agli uomini di colore, attivo tra il 1941 e il 1946. L’hangar, visitabile, si trova in Alabama.

Cito da Wikipedia: “Dopo l’entrata degli Stati uniti d’America nella seconda guerra mondiale, il presidente Roosevelt volle fortemente un reparto di piloti di aerei da caccia, e in seguito anche da bombardamento, interamente composto e comandato da uomini di colore. Numerosi uomini si arruolarono per prendere parte a questo progetto, considerandolo come uno stimolo per combattere la discriminazione razziale ancora in atto in quegli anni nel Paese.

Nacque così a Chehaw Alabama il 99th Fighter Squadron, meglio noto come Tuskegee Airmen e spesso soprannominato Red tails, “code rosse”.

Un minimo di storia.

Nel 1939, quando si cominciano a sentire le prime tensioni internazionali, il Congresso degli Stati Uniti passa il CPT, Civilian Pilot training Act, per allargare a più civili possibili l’addestramento come piloti, da usare nell’ambito militare all’occorrenza. Ovviamente l’esercito non era d’accordissimo a riguardo, ma la legge del 18 aprile 1939 che imponeva l’addestramento a partire dalle scuole alla fine si trovò tra i piedi una scuola di colore, e nel 1940 infine imposero che non si potevano fare discriminazioni per l’addestramento militare, con tanto della signora Roosevelt che supportava (fortunatamente) il tutto.
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Quindi, nel rovente luglio del 41, 13 giovani afroamericani vengono portati al Tuskegee Institue in Alabama, per essere addestrati dal corpo dei piloti, dal quale erano sempre stati totalmente esclusi.

Il museo è interessante, ci sono anche alcuni aerei delle famose “Red Tails” (code rosse), e moltissimi approfondimenti.

La parte più curiosa è forse il documentario, di cui mi ha colpito in particolar modo un pezzo: un aviatore (bianco, molto bianco), racconta di quando hanno incontrato in Francia per la prima volta lo squadrone “dei neri”. Faceva freddo, si sono spartiti cibo e sigarette. Affascinato e sorpreso “mi sono accorto che sono come noi, sanno parlare come noi”.

Eh, sì, bravo.

Era l’America degli anni ’40 (per dare due numeri: al massimo della sua espansione, negli anni ’20, il Ku Klux Klan, superava il numero di 4.000.000 di membri e cercò di entrarci pure il futuro presidente Harry Truman, democratico, fermato solo dalle posizioni anti-cattoliche del Klan).

Su tutta questa faccenda ho un’opinione personale ben precisa, magari scrivetemi la vostra.

Se siete interessati all’argomento aviazione, vi consiglio caldamente di leggere un piccolo capolavoro, sempre uscito dalla penna del mio adorato Bill Bryson: 1927, l’estate in cui accadde tutto Con il suo solito meraviglioso stile, racconta della volata transoceanica senza scalo di Lindbergh che tra il 20 maggio e il 21 maggio 1927, volà senza scali tra New York e Parigi.

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L’impresa aveva dell’incredibile, anche perchè partita dagli Stati Uniti in un periodo in cui l’aviazione era ancora senza nessun tipo di regole (oltre che estremamente arretrata rispetto all’Europa dove già si volava praticamente ovunque e tra Londra e Parigi volavano più di mille persone la settimana), licenze o anche un semplice libro in cui si tenesse conto degli aerei caduti. Il servizio passeggeri non esisteva e chi si comprava un aereo per sfizio personale veniva impiegato per qualsiasi cosa (irrigazione dei campi, consegna della posta), si guidava senza nessuna strumentazione, e tante volte i piloti dovevano scendere a bassa quota e leggere i cartelli delle stazioni ferroviarie per capire dove si trovassero.

Tutto questo mi fa pensare a quanto sia bello e sicuro viaggiare oggi, visto che le ali non vengono fatte con dei teli di cotone cosparsi di cera.

Se siete curiosi, qui sotto potete leggere un breve estratto di quel libro.

Charles Lindbergh aveva all’epoca venticinque anni, ma ne dimostrava diciotto. Era alto quasi un metro e novanta e pesava 58 chilogrammi. Era così integro da rasentare l’assurdo: non fumava e non beveva – nemmeno caffè o Coca-Cola – e non era mai uscito con una ragazza. Aveva un senso dell’umorismo stranamente poco sviluppato e si divertiva con scherzi grossolani che rasentavano in modo pericoloso la crudeltà… […] Nella comunità di aviatori creatasi a Long Island, le sue probabilità di trasvolare l’Atlantico erano in genere considerate più o meno pari a zero.

[…] Per molti versi, l’obiettivo più straordinario raggiunto da Charles Lindbergh nel 1927 non fu attraversare in volo l’Atlantico ma procurarsi un aeroplano con cui compiere la sua impresa. In qualche modo, gli riuscì di convincere nove granitici uomini d’affari di St. Louis, fra i quali A.B. Lambert, l’eponimo del campo Lambert, a finanziarlo, persuadendoli che un aeroplano con «St Louis» nel nome avrebbe senza dubbio migliorato le prospettive economiche della città. Era una tesi assai discutibile: per i suoi finanziatori era molto più probabile rimanere indelebilmente associati all’inutile morte di un giovane pilota idealista. Tuttavia il pensiero, se mai li sfiorò, non sembrò turbarli.”lindbergh

Lo Spirit of St Louis si basava su un modello già esistente, il Ryan M-2, ma per rendere il velivolo adatto a una trasvolata oceanica erano necessari molti accorgimenti. Il carico straordinario di carburante impose a Hall di ridisegnare le ali, la fusoliera, il carrello e gli alettoni, tutte modifiche importanti. Necessariamente, molti degli interventi furono basati sull’improvvisazione e su congetture ipotetiche, a volte in una misura sorprendente. Quando si resero conto di non avere un’idea precisa di quale fosse la distanza tra New York e Parigi lungo la rotta più diretta, Hall e Lindbergh andarono in una biblioteca pubblica e la misurarono su un mappamondo con un pezzo di spago. Fu con mezzi del genere che venne costruito uno dei più straordinari aeroplani della storia.
Lindbergh non voleva ritrovarsi chiuso, come in un sandwich, fra il motore e il serbatoio del carburante – troppi piloti erano rimasti schiacciati nel corso di atterraggi d’emergenza – e così il serbatoio principale venne montato davanti, dove di solito si trovava l’abitacolo, la cui posizione venne di conseguenza arretrata. Ciò significava che Lindbergh non avrebbe avuto alcuna visuale anteriore, ma la cosa lo disturbava meno di quanto potremmo aspettarci. In ogni caso, durante il decollo non avrebbe potuto vedere il terreno, perché l’aeroplano in fase di rullaggio si sarebbe inclinato all’indietro, e una volta staccato dal suolo avrebbe volato su un oceano vuoto, senza alcun ostacolo contro il quale schiantarsi. […]
Una volta finito, l’aeroplano era tutto fuorché all’avanguardia. Lindbergh volò con due pedali e una leva tra le gambe; il pannello della strumentazione aveva solo dieci indicatori piuttosto rudimentali, undici contando anche l’orologio. Notevole era l’assenza di un indicatore del livello di carburante, ma Lindbergh era convinto che quegli strumenti non fossero sufficientemente attendibili. Avrebbe calcolato il consumo manualmente, anche se si trattava, in fondo, di un esercizio accademico: i casi erano due, o aveva abbastanza carburante, o non l’aveva. L’aeroplano, inoltre, era privo di freni, come gran parte degli apparecchi dell’epoca. Il più delle volte l’assenza di freni era irrilevante, ma in seguito, quando le folle avrebbero cominciato a invadere tutte le piste su cui atterrava, si rivelò per Lindbergh un’enorme fonte di stress.
Il telaio dell’aereo era coperto con tela di cotone Pima, su cui erano applicati sei strati di vernice aromatica con pigmenti di alluminio, un prodotto che faceva ritirare la tela in modo che aderisse perfettamente all’ossatura in legno e acciaio tubolare. Sebbene lo Spirit of St. Louis sembrasse metallico, e spesso venisse descritto così dai giornali, in realtà l’unica parte davvero in metallo era la copertura del muso. Disponendo solo di un sottile strato di tela per separare Lindbergh dal mondo esterno, lo Spirit of St. Louis era di una fragilità snervante, oltre che rumorosissimo. Era un po’ come attraversare l’oceano dentro una tenda da campeggio.

 

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1 Comment

  • Reply roberta

    Mi mangio le mani…ad averlo saputo ci sarei andata..il mio ragazzo ama gli aerei va bene dai..è una scsua per tornare…come se ce ne fosse bisogno!

    27 Maggio 2017 at 19:01
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