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    Balcani, Pensieri qua e là

    DON’T FORGET SARAJEVO!

    IMG_9300Sarajevo è una città difficile.  Me ne sono accorta non tanto quando ero là, mentre passeggiavo per le strade o guardavo i monumenti che ancora sono rimasti in piedi dopo la guerra, ma mentre mi sono “dovuta” mettere davanti ad un foglio bianco con l’intento di scriverne.IMG_9314

    Sarajevo è una città ferita, l’intera Bosnia lo è. Ho parlato con amici di Jaice che nonostante la giovane età hanno dentro le vene l’odio per i serbi e per quella assurda guerra, e non hanno la cattiveria derivante da un odio mitologico, da affari di etnie o religione: loro sono incazzati perchè molti amici e parenti sono morti. “Anche mia cugina è stata ammazzata, aveva la mia età. Aveva un anno”. E quindi come fai a parlare senza andare fuori dai bordi? Racconto con indifferenza la città che ho visto? Faccio un post strappalacrime su quanta è brutta e cattiva la guerra?

    Più che scrivere, leggo. Sto finendo “maschere per un massacro” di Paolo Rumiz, un libro difficile sugli anni di guerra nei Balcani che lui ha vissuto in prima persona come inviato, e lo faccio per capire, per riuscire ad agguantare il bandolo della matassa ì, il capire anche solo “chi era contro chi e per cosa”, e ad ogni passo mi si apre un mondo. La guerra mediatica, le bugie, gli orrori, Srebrenica. Nel luglio del 1995 il mio unico pensiero era non essere potuta andare in colonia a Marina di Massa perchè avevo avuto l’insufficienza in matematica. A 6 ore di macchina da me, mentre Ligabue cantava “certe notti” e io mi strappavo i capelli davanti al video di “back For good” dei Take That, l’orrore era all’ordine del giorno, e la televisione ne parlava come una cosa “piuttosto lontana”. Un genocidio, mentre sulle spiagge opposte dello stesso lembo di mare la gente prendeva il sole.

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    E’ in questo la mia difficoltà di parlare di questa città, che adesso è viva e vitale, che ogni sera ha le vie invase dai giovani che bevono ai caffè, mangiano dolci e escono a divertirsi. E lo fanno in locali che spesso hanno le pareti trivellate di buchi, in palazzi che a volte sono ancora in parte distrutti. E hanno trent’anni, quindi “ai tempi”, loro c’erano. Fatico a parlare della città perchè non l’ho capita, perchè mi ha messo un germoglio dentro di cui ancora non capisco la pianta e non mi è dato ancora rendermi conto di dove sono stata. Più o meno la stessa sensazione che avevo avuto nei killing filelds in Cambogia o nei campi di tortura.

    E poi penso che quando sono uscita dall’S21 di Phnom Penh completamente sconvolta e ho chiesto al mio guidatore di tuk tuk di portarmi in hotel perchè non mi sentivo bene lui si è messo a ridere, come per tirarmi su di morale. E allo stesso modo mi sono sentita quando – dopo aver visitato il museo della storia- sono andata a bermi un caffè al Tito cafè, proprio sotto l’edificio che parla della devastazione balcanica dall’inizio ‘900. Si proprio un cafè pieno di busti e immagini del simpatico signore che è “celebre” per aver messo in piedi uno dei peggior genocidi della storia.

    Forse ci vuole un po’ di ironia, forse semplice si ride per non piangere.

    Sarajevo è bellissima. Ha un fascino strano, un misto di culture decisamente visibile. Ha l’aria di una vecchia signora, truccata per bene che ti guarda con gli occhi malinconici. E ti vien voglia di chiedergli la sua storia, di scoprire il perchè di quello sguardo.

    Ha degli scorci che ricordano Istanbul, a volte inciampi in palazzi splendidi, magari abbandonati e ti chiedi continuamente perchè. Solo “perchè”. Sarajevo non è Parigi e non è Londra, ma si fa amare.

    In un altro post un po’ più allegro cosa fare e cosa no. E intanto che ci penso cerco di togliermi la voglia di burek che mi è salita istantaneamente.

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