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storia

    Consigli di viaggio, Myanmar

    Bagan, primo giorno nella zona archeologica

     

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    Mi rileggo. Alt. Un attimo. Guardo i post, i video, sono allegra, felice. Racconto la mia Birmania, non LA Birmania. La prendiamo alla leggera, ridiamo delle loro stranezze, mal digeriamo il loro cibo (alcune cose, e proprio nel vero senso della parola!), trattiamo i prezzi bassi, fotografiamo mani e occhi segnati dal sole.

    Ieri sera abbiamo guardato il documentario Burma VJ, che parla delle rivolte che ci sono state in Birmania nel 2007, e la chiusura totale al mondo esterno che il governo militare ha imposto e questo gruppo di reporter “improvvisati” , la Democratic Voice of Burma, che filma e fa uscire notizie per canali alternativi. Rischiando la pelle. E non per modo di dire. Nel 2007, mentre io ero impegnata a non arrabbiarmi troppo con le stupide concorrenti di Miss Italia che saltellavano qua e là dentro al Berzieri, in Birmania i monaci venivano arrestati perchè cuore di una rivolta contro un governo oppressivo, dittatoriale. Quanto sappiamo? Poco. Quanto sapevo io? Imbarazzantemente poco.

    Ne parlo con leggerezza perchè la bellezza di quei posti ti riempie il cuore, conoscerne la storia ti apre una ferita.

    Bagan è un sogno. Questa zona di templi era in gara per il mio viaggio da sola del 2012 ma poi il dito è caduto su Angkor, più facile, più accessibile, disarmante, diverso.

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    Siamo arrivati con un autobus scassatissimo (e decisamente zozzo) da Mandalay (costo 8,5$) che ci ha scaricati aNyaung U, il luogo un po’ più abitato e “vitale” per guest house e localini dove poter mangiare un po’ di tutto – local per turisti, e turistico per turisti… Le opzioni sono queste – ma noi abbiamo prenotato a New Bagan, un pochino più vicino ai siti archeologici.

    Nel momento esatto in cui abbiamo posato i piedi per terra siamo stati assaliti da i taxisti, mototaxisti, carretto taxisti… Come succede ogni volta gentilmente rifiutiamo e ci spostiamo un po’ più in là.

    Una delle poche cose sempre vere che ho imparato viaggiando è: non trattare il prezzo davanti a tutti e mentre tutti stanno sparando al rialzo… Spostati, al 99% c’è uno che ti sta aspettando, 10 passi più in là, che non ha voglia di stare in mezzo al casino e tratterà molto più facilmente.

    Prendiamo un carrettino per qualche dollaro e nonostante il cavallo mi facesse tenerezza all’idea di portare noi e i nostri bagagli, ci fa fare pure un giro con stop nei templi lungo la strada.

    L’autista dormicchia e noi ci godiamo i primi scorci dall’alto.

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    E’ come l’aspettavo, è come nelle cartoline… Probabilmente meglio. Sei lì, che annusi l’aria meno polverosa in cima al tempio el’emozione ti assale. Non importa che tu non sia buddhista, che non te ne freghi una mazza dei templi, che tu sia caduto da un’aereo che portava a Phuket o che tua nonna ti abbia costretto ad andarci. La bellezza è troppa, la vegetazione abbraccia le cime dei templi che spuntano come funghi nel sottobosco. E’ di una bellezza disarmante.

    E’ un’alba dell’anima… Bagan da lassù è bellissima.

    Col carretto arriviamo al Ruby True, l’albergo più accogliente del pianeta, e non sto esagerando.

    Il personale cordiale e disponibile, la proprietaria (si, una donna, pure bella) di una gentilezza sincera fuori dal comune. Lo dico? Mi ha fatto sentire un po’ la mancanza della mamma. Perchè davvero ti fa sentire bene, accolta, come a casa.

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    L’albergo è pulito e accogliente. Il prezzo buono. Mi fanno sempre ridere i ragazzi che ti accompagnano in camera e ti mostranocome funziona tutto: l’acqua calda e fredda, il televisore, la porta… Dai, sul serio abbiamo bisogno di istruzioni per la porta?!

    Molliamo tutto in camera e noleggiamo per il pomeriggio/sera le bici elettriche. Come ho già scritto su beroad.it, noleggiate queste. Davvero, le distanze e la fatica sarebbe veramente folle e totalmente insensata per risparmiare 4 o 5 dollari (il costo di un cappuccino e brioches a casa). Con quella ti siedi, giri la chiavetta, giri la manopolina e via. Ti senti un po’ come quei culoni che girano per i supermercati americani con quelle motorette elettriche col cestino davanti, ma anche qui vige la legge “tanto non mi conosce nessuno” e va bene così. Anche perchè ne girano un bel po’.20140116_144354

    Voliamo a velocità moderata (più di un tanto non tirano) verso uno dei templi, uno di quelli sul fiume, in cui l’acqua riflette i colorie di tramonti straordinari. Lawkananda Pagoda.

    Il paesaggio, i monaci che fanno da cornice e da sfondo fotografico di un tramonto fuori da tempo.

    No un attimo. Io faccio da sfondo alle loro foto.

    Momento imbarazzo. Mi sono ritrovata a fare la fotografata della situazione da una mandria di monaci con gli ormoni in circolo.

    Una cosa che non tutti sanno è che non tutti quelli che vedete con il vestitino rosso o arancione “sono monaci/fanno i monaci/han scelto di fare i monaci”: quasi tutti i ragazzi hanno un periodo più o meno lungo da trascorrere in un monastero come scuola di vita (o qualcosa di simile) e che evidentemente durante quel periodo la questione “le donne non possono toccare i monaci e viceversa) non sia proprio proprio valida. Nocciolo della questione?

    Mi sono ritrovata addosso un gruppo di 10/15 monaci che con il loro smartphone si facevano delle selfie con la straniera di turno.20140116_174137_Richtone(HDR)

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    Gruppi di due, gruppi di tre, da soli, da vicino, da lontano. Era una situazione surreale.

    Con le nostre biciclette elettriche travestite da motorini siamo corsi a mangiare qualcosa, e visto che le recensioni gli davano credito (nonostante fosse un posto un po’ per turisti), ci siamo fermati al Black Rose restaurant. Impraticabile. Davvero, una cosa indegna. Scegliamo un’insalata di fagioli di soia, un curry di verdure e la tadizionale insalata di foglie di the.

    Partendo dal curry che era uguale al minestrone di mia mamma con una cucchiaiata di curry sul fondo e l’insalata di foglie di theche era abbastanza buona (con le favette fritte e e le noccioline) parliamo dell’insalata di fagioli di soya. Cioè, arriva questo piatto di pappa marrone dalla consistenza dubbia. Mi avvicino titubante al piattino, assaggio con una punta della forchettina alla salsa… Molliccia, marrone. Ma i pezzi duri cosa sono? CI facciamo coraggio e inforchiamo una dose di quella pietanza. Cipolla cruda. Cipolla cruda ricoperta di pappa marrone. Ero basita. Di solito mangio qualsiasi cosa ma quello… Era troppo anche per me.1389874597386

    Ci siamo fermati in un negozietto, abbiamo comprato dei wafer che abbiamo mangiato con l’acqua.

    I migliori wafer della mia vita.

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    Balcani, Pensieri qua e là

    DON’T FORGET SARAJEVO!

    IMG_9300Sarajevo è una città difficile.  Me ne sono accorta non tanto quando ero là, mentre passeggiavo per le strade o guardavo i monumenti che ancora sono rimasti in piedi dopo la guerra, ma mentre mi sono “dovuta” mettere davanti ad un foglio bianco con l’intento di scriverne.IMG_9314

    Sarajevo è una città ferita, l’intera Bosnia lo è. Ho parlato con amici di Jaice che nonostante la giovane età hanno dentro le vene l’odio per i serbi e per quella assurda guerra, e non hanno la cattiveria derivante da un odio mitologico, da affari di etnie o religione: loro sono incazzati perchè molti amici e parenti sono morti. “Anche mia cugina è stata ammazzata, aveva la mia età. Aveva un anno”. E quindi come fai a parlare senza andare fuori dai bordi? Racconto con indifferenza la città che ho visto? Faccio un post strappalacrime su quanta è brutta e cattiva la guerra?

    Più che scrivere, leggo. Sto finendo “maschere per un massacro” di Paolo Rumiz, un libro difficile sugli anni di guerra nei Balcani che lui ha vissuto in prima persona come inviato, e lo faccio per capire, per riuscire ad agguantare il bandolo della matassa ì, il capire anche solo “chi era contro chi e per cosa”, e ad ogni passo mi si apre un mondo. La guerra mediatica, le bugie, gli orrori, Srebrenica. Nel luglio del 1995 il mio unico pensiero era non essere potuta andare in colonia a Marina di Massa perchè avevo avuto l’insufficienza in matematica. A 6 ore di macchina da me, mentre Ligabue cantava “certe notti” e io mi strappavo i capelli davanti al video di “back For good” dei Take That, l’orrore era all’ordine del giorno, e la televisione ne parlava come una cosa “piuttosto lontana”. Un genocidio, mentre sulle spiagge opposte dello stesso lembo di mare la gente prendeva il sole.

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    E’ in questo la mia difficoltà di parlare di questa città, che adesso è viva e vitale, che ogni sera ha le vie invase dai giovani che bevono ai caffè, mangiano dolci e escono a divertirsi. E lo fanno in locali che spesso hanno le pareti trivellate di buchi, in palazzi che a volte sono ancora in parte distrutti. E hanno trent’anni, quindi “ai tempi”, loro c’erano. Fatico a parlare della città perchè non l’ho capita, perchè mi ha messo un germoglio dentro di cui ancora non capisco la pianta e non mi è dato ancora rendermi conto di dove sono stata. Più o meno la stessa sensazione che avevo avuto nei killing filelds in Cambogia o nei campi di tortura.

    E poi penso che quando sono uscita dall’S21 di Phnom Penh completamente sconvolta e ho chiesto al mio guidatore di tuk tuk di portarmi in hotel perchè non mi sentivo bene lui si è messo a ridere, come per tirarmi su di morale. E allo stesso modo mi sono sentita quando – dopo aver visitato il museo della storia- sono andata a bermi un caffè al Tito cafè, proprio sotto l’edificio che parla della devastazione balcanica dall’inizio ‘900. Si proprio un cafè pieno di busti e immagini del simpatico signore che è “celebre” per aver messo in piedi uno dei peggior genocidi della storia.

    Forse ci vuole un po’ di ironia, forse semplice si ride per non piangere.

    Sarajevo è bellissima. Ha un fascino strano, un misto di culture decisamente visibile. Ha l’aria di una vecchia signora, truccata per bene che ti guarda con gli occhi malinconici. E ti vien voglia di chiedergli la sua storia, di scoprire il perchè di quello sguardo.

    Ha degli scorci che ricordano Istanbul, a volte inciampi in palazzi splendidi, magari abbandonati e ti chiedi continuamente perchè. Solo “perchè”. Sarajevo non è Parigi e non è Londra, ma si fa amare.

    In un altro post un po’ più allegro cosa fare e cosa no. E intanto che ci penso cerco di togliermi la voglia di burek che mi è salita istantaneamente.

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