Paola Annoni
Providence é proprio come ti aspetti una cittadina con quel nome: baciata da un cielo divino che la rende la cittá perfetta per una pubblicitá di tagliaerba.
È da passeggiare in lungo e in largo. Niente macchina anche se il quartiere di College Hill è tutto un saliscendi (anche se a me è sembrato solo un sali… Ma forse perchè quando hai 40 ore di veglia alle spalle, tutto ti sembra decisamente un sali), e le case sono decisamente da cartolina, e poi arrivi lì all’ingresso della Brown University -il quarto più vecchio degli Stati Uniti- e ti rendi conto di perchè da queste parti i ragazzi fanno qualsiasi cosa per poter studiare, anche solo sedersi in quel parco perfettamente tosato e studiare riparati dal sole da qualche quercia secolare… Beh, è senza dubbio meglio del parcheggio con qualche pianta infilata nel cemento della Bicocca. Mentre passavamo nelle diverse zone (ah, per la cronaca: in tutto il campus c’è la wifi gratuita) si sono susseguiti nell’ordine: ragazza che dormiva nel prato, gruppo di ragazzi e ragazze che si allenavano con birilli e palline a fare gli artisti di strada, altro gruppetto di canterini che inneggiavano a Dio e all’amicizia, sposa oversize con seguito di damigelle di tutte le etá e tutte le taglie con uomini più interessati al supersigaro che avevano in bocca che alle foto. Un ambiente totalmente rilassato e vivibile… Cioè, a chi verrebbe in mente di andare a fare il servizio fotografico del matrimonio all’incrocio della metro in cui c’è la sede della statale di Milano?
Vagabondiamo per la cittá, passiamo davanti a tutte le case “storiche” ma tutto il nostre attenzioni sono focalizzate tutte sull’incredibile fortuna (ehm, direi più botta di culo) di essere al posto giusto nel momento giusto… Si perchè come segnala la LP uno degli eventi (che viene messo in piedi una decina di volte all’anno) è il WATERFIRE, un’installazione artistica con tutta la festa di contorno. Lungo il fiume vengono montati dei bracieri che poco a poco vengono accesi da “cerimonieri” che a suon di musica accendono con torce infiammate tutte le cataste di legna… Davvero carino. E la parte alimentare non può mancare. Come low budget e soprattutto per soddisfare la voglia di junk food abbiamo optato per un panino da Haven Brothers Diner (accanto alla City Hall), un camioncino allestito a sfornapanini reso celebre dal sanissimo programma Man Vs Food in cui un simpatico ragazzone si ingozza di junk food. E nella puntata dedicata a Providence prima di mettersi contro ad un giocatore di football e ingozzarsi di hot dog ricoperti di carne e cipolla si ferma in questo truck a farsi un triplo murder burger.
Allora: a parte che l’hot dog era più o meno grande come quello dell’ikea e il mio panino sub con il pollo era assolutamente “normale”… Il murder burger era… Un hamburger normalissimo al costo di un hamburger esagerato. A parte le dimensioni ridotte (la tv ingrassa anche i panini!) 9 dollari e neanche un cetriolino? No dai.
Io non è che proprio ho paura di volare. Ho semplicemente guardato troppi film in cui si staccano ali, si scoperchiano aerei e uno sconosciuto dagli addominali perfetti e un’hostess bella e coraggiosa salvano tutti con dello scot
h da pacchi e doti di pilotaggio improvvise. E quindi visto che ero circondata da anziani russanti e le hostess erano abbastanza attempate da non dimostrare poi tutta questa paura di morire… Beh, il volo Amsterdam – Boston operato da Delta è stata la solita tortura di turblenze guarnita oltretutto da un bicchiere di vino rosso che la gentile signorina mi ha rovesciato sulla giacca bianca (e pulito prontamente tutto con una sprite che ha dato anche una sfumaura di giallo). Solo quando tocchiamo terra e le hostess insultano quelli che si alzano prima che l’aereo sia fermo, che posso dire davvero di essere arrivata.Almeno in volo ho rinfrescato la mia passione giovanile per il buon Leonardo di Caprio guardandomi il Grande Gatsby. Ah, il bicchiere di vino non era neanche per me. Strano.
Quanto so di questo intensissimo tour dal profumo d’autunno a parte il nome degli stati che toccherò? Poco, a dir la veritá. parto mediamente poco preparata (viaggiare con un uomo che è un’enciclopedia vivente che ha pure il gps integrato farebbe impigrire anche il viaggiatore più accanito). Parto con la certezza dei colori intensi che mi aspettano e le zucche onnipresenti (oltre al pumkin spice in ogni ricetta!), la gentilezza degli americani e la possibilitá di confrontarla con quella canadese e vedere se le prese in giro di Robin in How I met your mother sono così giustificate. Parto con il blogtour alle Eolie ancora sulla pelle (incredibile, son leggermente bronze) e infilo il piumino in valigia. Parto con la solita voglia di viaggiare. La curiosità è una droga, i viaggi sono la miglior valvola di sfogo!
Per quanto vorrei che diventasse un lavoro a tempo pieno scrivere è sempre stato un piacere… Mi sembra che un viaggio senza il ricordo delle emozioni scritte da poter rileggere e rivivere… Beh, mi sembra un viaggio un po’ a metá. E sarà che il mio entusiasmo è stato un po’ minato, ma qui nel New England ho scritto un po’i primi giorni e poi ho smesso, dopo essermi riletta e aver trovato nelle mie parole solo un asettica rivisitazione della LP.
Visto che mi sto imponenedo come religione il “vedere il bello in ogni cosa” e il bicchiere mezzo pieno io ci riprovo. Dividendo la strada per stati e paesi… Lasciando spazio ovviamente alla parte food (che per me è anche rimanere incantata davanti ai ricettari di un bookshop!)… Che per me è assolutamente fondamentale. Per viaggiare bisogna mettere in valigia tre cose: il passaporto, l’entusiasmo e la curiositá (e un po’di soldi, ovviamente). Se dimentichi anche solo uno di questi elementi allora non hai capito nulla del viaggio. Sei uno che si sposta.
Quindi: un bel sorriso, un bel sospiro e ripartiamo. Benvenuti nel New England!
Sarajevo è una città difficile. Me ne sono accorta non tanto quando ero là, mentre passeggiavo per le strade o guardavo i monumenti che ancora sono rimasti in piedi dopo la guerra, ma mentre mi sono “dovuta” mettere davanti ad un foglio bianco con l’intento di scriverne.
Sarajevo è una città ferita, l’intera Bosnia lo è. Ho parlato con amici di Jaice che nonostante la giovane età hanno dentro le vene l’odio per i serbi e per quella assurda guerra, e non hanno la cattiveria derivante da un odio mitologico, da affari di etnie o religione: loro sono incazzati perchè molti amici e parenti sono morti. “Anche mia cugina è stata ammazzata, aveva la mia età. Aveva un anno”. E quindi come fai a parlare senza andare fuori dai bordi? Racconto con indifferenza la città che ho visto? Faccio un post strappalacrime su quanta è brutta e cattiva la guerra?
Più che scrivere, leggo. Sto finendo “maschere per un massacro” di Paolo Rumiz, un libro difficile sugli anni di guerra nei Balcani che lui ha vissuto in prima persona come inviato, e lo faccio per capire, per riuscire ad agguantare il bandolo della matassa ì, il capire anche solo “chi era contro chi e per cosa”, e ad ogni passo mi si apre un mondo. La guerra mediatica, le bugie, gli orrori, Srebrenica. Nel luglio del 1995 il mio unico pensiero era non essere potuta andare in colonia a Marina di Massa perchè avevo avuto l’insufficienza in matematica. A 6 ore di macchina da me, mentre Ligabue cantava “certe notti” e io mi strappavo i capelli davanti al video di “back For good” dei Take That, l’orrore era all’ordine del giorno, e la televisione ne parlava come una cosa “piuttosto lontana”. Un genocidio, mentre sulle spiagge opposte dello stesso lembo di mare la gente prendeva il sole.
E’ in questo la mia difficoltà di parlare di questa città, che adesso è viva e vitale, che ogni sera ha le vie invase dai giovani che bevono ai caffè, mangiano dolci e escono a divertirsi. E lo fanno in locali che spesso hanno le pareti trivellate di buchi, in palazzi che a volte sono ancora in parte distrutti. E hanno trent’anni, quindi “ai tempi”, loro c’erano. Fatico a parlare della città perchè non l’ho capita, perchè mi ha messo un germoglio dentro di cui ancora non capisco la pianta e non mi è dato ancora rendermi conto di dove sono stata. Più o meno la stessa sensazione che avevo avuto nei killing filelds in Cambogia o nei campi di tortura.
E poi penso che quando sono uscita dall’S21 di Phnom Penh completamente sconvolta e ho chiesto al mio guidatore di tuk tuk di portarmi in hotel perchè non mi sentivo bene lui si è messo a ridere, come per tirarmi su di morale. E allo stesso modo mi sono sentita quando – dopo aver visitato il museo della storia- sono andata a bermi un caffè al Tito cafè, proprio sotto l’edificio che parla della devastazione balcanica dall’inizio ‘900. Si proprio un cafè pieno di busti e immagini del simpatico signore che è “celebre” per aver messo in piedi uno dei peggior genocidi della storia.
Forse ci vuole un po’ di ironia, forse semplice si ride per non piangere.
Sarajevo è bellissima. Ha un fascino strano, un misto di culture decisamente visibile. Ha l’aria di una vecchia signora, truccata per bene che ti guarda con gli occhi malinconici. E ti vien voglia di chiedergli la sua storia, di scoprire il perchè di quello sguardo.
Ha degli scorci che ricordano Istanbul, a volte inciampi in palazzi splendidi, magari abbandonati e ti chiedi continuamente perchè. Solo “perchè”. Sarajevo non è Parigi e non è Londra, ma si fa amare.
In un altro post un po’ più allegro cosa fare e cosa no. E intanto che ci penso cerco di togliermi la voglia di burek che mi è salita istantaneamente.
Chi mi conosce lo sa: sono drogata di storia recente, quella tangibile, quella che ancora è visibile nei solchi delle strade e nelle rughe della gente che ancora vive i posti che sono stati i teatri delle pagine dei libri di scuola. E quindi dopo Berlino e la Cambogia per completare il mio piccolo puzzle storico personale mancava solo lei, Sarajevo.
Non so neanche bene perchè avessi una tale fissa. Comunque sia, qualunque fosse la motivazione le aspettative non sono state deluse, Sarajevo è bellissima, é una piccola Istanbul che si è scontrata con un moderno occidente e deve ancora capire qual’è la sua identità. E intanto lascia che la storia trasudi da ogni palazzo, da ogni buco di sparo e da ogni parete, per creare un atmosfera suggestiva ed emanare un fascino assolutamente unico.
Ostello a parte. Quello no, quello faceva abbastanza schifo. Viaggiando low budget abbiamo optato per il Tower hostel, poco lontano dal centro e che costava 15€ per notte. Allora: io non pretendo lussi sfrenati per una cifra del genere ma le prese per i fondelli mi fanno sempre un po’incavolare. Suoniamo il campanello di questa anonima porta in una via minuscola, ci accoglie un anziano e gentile signore che ci accompagna dal boss della questione. Dietro il bancone di uno scantinato ci aspetta un tizio “abbondantemente”sovrappeso,scalzo in pantaloncini da mare e maglietta bianca da pigiama pure un po’padellata. Perplessa guardo dentro alle porte e i letti a castello sono incastrati a tetris… Mmmh. Ci chiede se siamo proprio sicuri sicuri di volere la camera più economica che c’é. Ce la mostra, rimango decisamente perplessa. La “camera”consiste in un letto a castello in un corridoio, MA per 5 euro in più ci puó dare la camera adiacente al corridoio/stanza. Accettiamo e preferiamo la stanza di 2,5 metri di lunghezza per 1,90 di larghezza (misurato col metro umano) per circa 2m di altezza (sempre tenendo Gianni come unità di misura) per 20€. E poi non vuoi mettere la macchina nel cortile visto che fuori c’é pieno di vandali. Ok. Son 5€. Ammó. Alla fine 25€ che potevano essere meglio spesi, soprattutto non nella casa dei sette nani sotto vuoto.
Ma siamo a Sarajevo e quindi chissenefrega!
Abbiamo mollato tutto nello sgabuzzino in cui abbiamo dormito e siamo partiti subito alla volta della città. Ero decisamente emozionata.
Scusateiovado ha avuto un attimo di down. Diciamo che ha avuto un piccolo letargo momentaneo, questa volta giustificato, dai.
Il motivo è semplice, scrivi che ti riscrivi ecco che capita l’occasione. Prima di partire per l’India mi chiamano da radio Deejay, si parla di visto, di viaggi, di blog. Due chiacchiere. Click. Posta in arrivo. Mi trovo la mail di una certa Valentina Besana, “mamma” di beroad.it, sito che oltretutto avevo scoperto qualche giorno prima vagando qua e là in rete. “Ti va di collaborare?”. Si puó dire di no ad una collaborazione del genere? E quindi butto lì qualche idea, il mio ristorante preferito a BKK, Tripluca, la torta fritta. Poi la proposta “vuoi andare in Tuscia al posto mio per un blogtour?”. Ripeto, si puó anche solo pensare di no a delle proposte del genere? Lo so che io vivo in uno stato di entusiasmo perenne ogni volta che devo prepare uno zaino, una valigia od un sacchetto di plastica in cui infilare tre o quattro paia di calze e mutande da cambiarmi in una stanza che non è casa mia. E quindi sono stata a spasso qua e là, scritto post su beroad su Tuscia, Franciacorta o il folle weekend in Paganella e sognato ogni giorno di più. Intanto cominciamo così, col mio racconto del primo blogtour in Tuscia.
Ok, si sono io. Sono quella che lo scorso anno ha scritto il pezzo sulla scoperta della Fede in Bruce, l’illuminazione. Blinded by his light. Ieri sera, grazie ad una serie di fortuiti eventi (che chiamerei più precisamente botte di culo e gente che si è sbattuta per noi, nello specifico il solito Boido) eravamo anche noi a San Siro. Finalmente, San Siro.