Quanto possono fare le pagine di un libro? L’odore della carta a volte profuma di cumino, spezie e ricordi.
Profuma di Istanbul.
La Cri per Natale mi ha preso un libro, uno di quelli che in libreria sfoglio sempre: si chiama Eat Istanbul, parla di cucina turca, raccoglie ricette della capitale dal destino triste. Me l’ha dato poco tempo fa, anche se a Natale sarebbe stato azzeccatissimo, perché la capitale turca l’ho vista proprio in pieno periodo natalizio, nel 2011, anche se mi sembra essere passato un tempo infinito.
L’ho amata, tanto. Ha sempre avuto un non so che di magnetico ai miei occhi: un porto mistico dove oriente ed occidente mischiavano le loro acque e la loro storia, dove c’è una moschea con l’anima da chiesa, dove il vento è parte integrante del quadro dipinto nei ricordi.
Il primo libro che ho letto su questa città è stata la celebre opera di Pamuk, “Istanbul”, in cui raccontava la sua vita attraverso la città, e a distanza di anni ricordo ancora le pagine ricche di rabbia, amore e passione, uno studio impolverato dove amoreggiava con la ragazza del tempo, un’infanzia dalle gambe nude e le corse sui ciottoli lucidi delle vie in salita.
Il libro è di una noia mortale. Eppure non puoi smettere di leggerlo. Vuoi solo scoprire ancora un angolo di questo mondo, un divanetto drappeggiato, un sapore intenso che scopri prima nei tuoi pensieri e poi vai a cercare nel viaggio. Come quando continui a scottarti la lingua perché il the scotta, ma vuoi assaggiarlo, vuoi assaporarlo, vuoi sentire quanto è dolce. I bicchierini di vetro, perenni.
Il vetro sottile sembra essere sempre pronto a cedere sotto una presa troppo stretta o dell’acqua troppo bollente. Eppure restano lì, intatti, con la storia di generazioni passate tra un bicchiere e l’altro.
Istanbul è le olive a colazione, i cucchiai di miele dentro uno yogurt acido, il cumino perenne, la carne sugli spiedini sfilata con pani morbidi, le pita, le pizze, il cibo, il cibo, il cibo…
Il cibo è sporco nei sapori, mischiato, accatastato su piatti troppo carichi. Il pane scotta, gonfio, appena uscito dal forno. Il loro mondo passa tutto per la tavola e non potrai mai rimanere impassibile e ogni volta la forchetta affonda in una sinfonia di colori e sapori, le mani sporche di miele dei baklava sarà la costante di ogni pranzo.
Sono andata sotto Natale e la città era addobbata a festa, anche se i cristiani non arrivano neanche all’ 0,5%. Sono entrata nella prima moschea di tutta la mia vita, e quel momento non potrò mai dimenticarlo.
La Moschea Blu.
Fuori pioveva e dentro il pungente odore di umido e piedi non era una cornice idilliaca per fare il primo passo dentro una cultura nuova, una religione diversa. Se chiudo gli occhi il primo ricordo è la moquette rossa, morbida e umida sotto i piedi, la testa coperta e la gente seduta comodamente qua e là, come se fosse il salotto di casa.
Mi ha sempre colpito questa naturalezza che hanno anche i buddhisti: nei templi ci si comporta un po’ come a casa, seduti per terra, con le buste della spesa a lato.
Forse il tempio, la chiesa o la moschea dovrebbero essere proprio questo: un posto dove ti senti a casa e non un luogo dove devi diventare una persona diversa, con l’abito buono e la testa altrove.
La luce soffusa creava un’aurea di magia unica.
Apro i cassetti di ricordi, dimenticati fino ad oggi.
Ho vissuto l’esperienza di un Hammam, con tanto di lavaggio con sapone nero e scrub fatto da una massaggiatrice praticamente nuda.
Sdraiata sul marmo caldo e pentagonale dell’Hammam mi sono fatta lavare guardando il cielo grigio dal lucernario. Una fodera piena di sapone proveniente da un’Aleppo che adesso non esiste più.
Una giovane donna che attacca bottone e allena il suo inglese sdraiandosi accanto a me.
Immaginate la scena. Io, maledettamente pudica e nuda con una che con la massima naturalezza faceva stretching davanti a me, raccontandomi del marito imprenditore.
Le mie prime reali uscite dalla confort zone, uno dei primi veri viaggi fatti immergendomi nella cultura del posto, dove tutto andava alla grande anche se la prima cosa che mi è successa è stata una gigantesca cacca d’uccello in testa di cui avrei fatto volentieri a meno.
Un altro the, un altro Kofte.
Passeggiate con lo sguardo rivolto al Bosforo, serate sui tetti della città, guardando le luci di un mondo sempre vivo.
La mia pelle dopo qualche giorno già sapeva di cumino, il mio cuore sapeva di Istanbul.
Vorrei tornarci.
Vorrei farlo ed ho paura, e questo rende i miei ricordi maledettamente amari. Una terra preclusa dalle decisioni alte che rovinano la vita solo in basso.
Una città che ha sempre messo insieme Asia ed Europa, cristianesimo e islam, idee di ogni pezzo di mondo.
Ora una città senza pace, dove posso andare solo grazie ai ricordi, a un libro bellissimo, al miele sullo yogurt che a casa, non è poi così buono.
1 Comment
Paola, con questo post mi hai fatto sognare! Mi sono sentita anch’io ad Istanbul, ho sentito la nostalgia di un luogo che ancora non ho mai visitato ma che sogno. <3
23 Febbraio 2018 at 9:28