Non sono scappata, non ho abbandonato il progetto blog… Sono solo… In Irlanda! E fino all’aeroporto non ne sapevo nulla! Adesso spiego…
Pensieri qua e là
Allora: prima di scrivere questo post mi é stato detto “per cortesia, cerca di essere non troppo politicamente scorretta a riguardo”, ma visto che non scrivo né per il Corriere della Sera né per L’Osservatore Romano dirò la mia vera impressione sui territori Navajo e in particolar modo sulla gente che li popola. Gran bel posto di cacca. Gran bella gente di cacca.
Premesso che mi sono piuttosto inacidita quando mi sono sentita chiedere QUARANTASEI (si, QUARANTASEI) dollari a persona per andare ad Antelope Canyon. Davanti a un mio “ohh wow”, che poteva essere tradotto con un “porca vacca però quanto è caro!” mi sono sentita rispondere “guarda che é l’orario di punta”anche se mi offriva l’ingresso delle 12:30 quando la luce é giá bella che andata. Volevo urlarle dietro “le cose belle della vita sono tutte gratis o almeno incluse nel pass dei parchi nazionali” ma poi ho lasciato perdere. Lo volevo vedere ma 100 euro in due per una mezz’oretta… Mi sembra davvero una presa per il culo. Andiamo a fare un giretto per una delle cittá piú navajo che si possano trovare, Kayenta, dove ci dirigiamo in un Burger king in cui é allestita una mostra sui wind talkers.
Si, in un Burger King. Ci prendiamo un hamburger già che siamo. Mi viene in mente la storia dei “visi pallidi” perchè è quello che siamo in un fast food solo di indiani (a parte una ragazzina che sembra appena arrivata dalla Norvegia del nord). Il ragazzo a cui chiedo il double wopper mi risponde 3 volte in un inglese incomprensibile, e ai miei “sorry, may you repeat?” si incazza pure un po’ e credo che l’ultima domanda fosse “vuoi una caccola del mio collega oltre ai cetriolini?”. Ho annuito, perplessa.
Riproviamo in un supermercato dove tutte le indicazioni sono in doppia lingua ma gli scones sembrano ottimi. La signora è infastidita e per mettermi 1 scones e due cookie in una bustina ci impiega circa 10 minuti. Tesoro, spero non ci sia mai fila se no si fa notte se aspetto che mediti sui muffin.
Dai, facciamo un giretto per la città con la macchina, ma sembra un campo di giostrai in rovina, caravan camper e roulotte ovunque, le case sono tutte disastrate e costruite con materiali nobili tipo eternit e amianto. Spazzatura qua e lá. Mi é venuta una tristezza…hanno combattuto per i loro territori e i loro diritti, perché non far vedere che ci tenete un pochino? Forse sono solo i Navajo, forse é solo qui. Non mi aspettavo tende e simpatici indiani seduti intorno al fuoco, ma un po’di amor proprio…
Ripenso alle parole di una cara amica che ha vissuto l’esperienza di un vero accampamento indiano nella zona di Havasupai, nel mezzo del nulla (ci si arriva solo con una giornata di cammino o cavallo, oppure elicottero), tra le montagne incantevoli e delle cascate di un azzurro quasi irreale: “foto solo fuori, in mezzo alla natura, perché dove c’erano gli indiani mi vergognavo a farle, c’era troppo sporco!”. Due su due che pensano la stessa cosa, non é una buona media.
Tra un viaggio e l’altro si fanno anche esperienze a casa, e anche a casa si possono scoprire mondi interi che sono sempre rimasti lì, in attesa, pazienti. Uno di questi mondi per me era Bruce Springsteen e la sua musica. Un mondo che, finalmente, dopo il concerto di Trieste, si è schiuso.
“It aint no sin to be glad you’re alive”
Non è che non so nulla di musica, ho solo dei buchi. Buchi grandi come voragini su Marte, ma buchi. Sono cresciuta a pane Elvis e Beatles, il mio lettore si rifiuta di far girare ancora Paint it Black e Battisti era l’unico che riusciva a farmi addormentare. In senso buono, ovvio. E poi nulla. A parte una passione nata nell’adolescenza per i Metallica. Un po’ di spazzatura qua e là, schifezze da radio, roba che si ascolta in piscina d’estate.
E poi arriva lui, no, non Bruce. E’ arrivato l’uomo che si è fatto largo e ha piazzato il suo sedere occupando tutto lo spazio nel mio cuore. E lui, si, è uno springsteeniano, che troppo spesso e poco volentieri mi imponeva degli “ascolta questa, leggi il testo”, per poi inversare gli angoli della bocca all’ingiù e sentirmi dire “a me sta roba non piace”. Mi ha dedicato canzoni, le ha messe come sfondo a serate romantiche, è arrivato a togliermi la mia roba dall’ipod per imporre la sua “perché ti devi fare una cultura musicale”, e tutto quello che è riuscito ad ottenere è stato un litigio.
E poi, la soluzione finale, probabilmente memore della celebre frase “Nel mondo ci sono solo due tipi di persone: quelle che adorano Bruce Springsteen e quelle che non l’hanno mai visto in concerto”, mi ha comprato un biglietto. “E se poi non ti piace lascio perdere.”
E poi lui. Lui, Bruce. Sale sul palco, lo stadio esplode, lui sorride. Mi ha già fregata.
Mi sono DIVERTITA. Dietro di me c’era un tizio che spiegava alla neo morosa (dev’essere per forza una roba fresca perché nessuna donna può sopportare uno così per più di due settimane) tutto quello che doveva fare: alza le mani così, fai cosà. Questa canzone significa questo e quest’altro. Ma lasciala ballare! Io sono stata abbracciata e poi “lasciata alla transenna”, e le mie gambe non sono state ferme un attimo. Oltretutto era impossibile fare altrimenti accanto a due scatenate che stanno seguendo tutti i concerti in giro per l’Europa. Fino a ieri ho detto “che voglia che hanno di vedersi magari 10 concerti”, ieri sera ho chiesto “ma coma fanno col lavoro?”.
E poi la carica di Working On The Highway e Born to Run, la gioia di cantare Rosalita per una ragazza che l’ha chiesta per “ma and pa”, e la dolcezza di The river, che ti fa solo voglia di farti prendere per mano e lasciarti vivere.
Mio padre, appena tornata a casa mi ha chiesto come era stato, come era andata, e io a parte un banale e ridicolo “bellissimo”, non sono riuscita a elaborare niente di più.
Ho fatto pace con Bruce, con Rosalita, Frank e Joe, Mary, Sally e tutti quei personaggi delle sue storie che adesso cominceranno a far parte della mia.
Bruce, ce l’hai fatta, hai fregato anche me.
Tu e quegli springsteeniani che hanno il vizio di contagiare tutti col tuo “verbo”. Adesso, almeno, capisco perchè.
E quando apri gli occhi e sai che si, quello è l’ultimo giorno, che è la penultima notte che dormirai in un letto non tuo, dopo che di letti ne hai cambiati quasi uno ogni notte per 50 giorni, che dovrai tornare a vivere la tua vita,guardare sempre la stessa parete ogni volta che stai per chiudere gli occhi…è dura. Molto dura. Il tempo ricomincia quando sei a casa, perchè il tempo del viaggio, almeno io, l’ho sempre vissuto come tempo sospeso, lontano dalla realtà, come se tutto si fermasse in attesa del
Non sono scappata. Non sono fuggita ancora e no, non ho abbandonato il blog. Sono viva. Più o meno.
SI perchè nell’ultima settimana ho passato metà del tempo a letto, sperando di non morire tra febbre e mal di tutto, tra montagne di fazzoletti che, per quanto possano essere morbidoni e balsamati, mi hanno scorticato il naso fino a farmi sembrare, sempre e comunque, mastro ciliega. Almeno ho avuto tempo per pensare, ricordare e soprattutto fantasticare su un nuovo viaggio. Ah, e fare le selezioni per Donnavventura. Ma tanto, non mi prenderanno mai (credo che il metodo di valutazione si basi quasi totalmente sul coefficiente di figaggine intrinseca). Ho ripasseggiato sulle mie amate strade milanesi e sono tornata a casa che ero del colore dello smalto che avevo scelto da abbinare alla camicia: verde.
Proseguiamo… Kyoto
In quanti hanno abusato di questo modo di dire? Born wild, born to be free. Ho pure una maglietta comprata in saldo da h&m che riporta questa scritta. Un po’ ridicolo il tutto, ma incredibilmente mi sento così. Libera.
Libera di dire quello che voglio, di fare quello che voglio, di esprimermi liberamente senza aver paura di esser fuori luogo. Libera, alla fine di essere me stessa.
Confidando nel suo “dovresti farti una vacanza…ma da sola!!” detto qualche giorno fa, ho preso il coraggio a due mani e comunicato a mia mamma che che sto progettando SUL SERIO di partire per un po’, mettermi lo zaino in spalla e magari gironzolare per il sud-est asiatico evitando il freddo inverno che si sta prospettando e mettendo un po’ a posto i pensieri che da troppo tempo si affollano nella mia testa.
Risultato?
Una delle migliori conversazioni tragicomiche della storia.
Forse ha visto che non stavo scherzando o che non la prendevo leggera come le altre volte in cui vagheggiavo dei “voglio andare via” senza ben specificare dove come e soprattutto quando.
Dopo aver balbettato qualcosa come 36 “ma..ma..ma..” mi ha cominciato a proporre mete alternative, stagioni in montagna, parti sperdute della sua amata Spagna, IL CAMMINO DI SANTIAGO ( dove a suo dire potrei incontrare BELLISSIMI ragazzi, buoni, simpatici e intelligenti…vorrei sapere che pubblicità ha visto…) dove verrebbe volentieri anche lei, si è spinta addirittura negli Stati Uniti dove potrei lavorare e imparare l’inglese come si deve.
La parte migliore? Nel panico e nella preoccupazione di “volerla far morire di paura” perchè ci sono i thailandesi cattivi che vendono le bambine di 6 anni (forse è ancora convinta che io li abbia, 6 anni), mi ha proposto come ennesima meta alternativa…VASTO (CH)!
Senza nulla togliere alla ridente cittadina abruzzese ma…Vasto!?
Da lì la conversazione è degenerata, parlando di risciò (tuc tuc), capanne, riso e gente che, secondo il suo parere, non avrebbe nulla di meglio da fare che violentarmi o farmi a pezzettini per vendermi al mercato nero degli organi ( vi avviso, il fegato mi sa che non riuscireste a rivenderlo!).
Ma è senza dubbio una delle migliori conversazioni mai fatte con mia madre, che in fondo, credo solo voglia venire con me…
Ero già pronta con il pigiama antistupro infilato, la borsa dell’acqua calda in mano e un libro in mano su cui stavo già progettando di addormentarmi.
Drinnn.
Mio padre è rimasto a piedi con la macchina e io ho dovuto guidare per due ore abbondanti nella nebbia per andarlo a recuperare. Si fa. E’ famiglia.
Ma stamattina quando, per l’ennesima volta ho dovuto grattare via il ghiaccio dalla macchina e correre al lavoro per sorridere in quella maniera accondiscendente ai capricci della gente annoiata ho capito che davvero era arrivato il momento.
Il mio posto in questo momento non è qua.
E’ ora.
Da piccola sognavo di fare l’hostess.
Da quando ho 16 anni dico di volermene “andare per un po’”… sognando le Fiji e il Madagascar.
Credo che si arrivato il momento per trasformare un sogno in progetto.
Ce la farò?